Critica

Lo sguardo, il tempo, la bellezza

Inizia tutto dentro una stanza nascosta nel cuore della campagna romana, oltre una porta a vetri che si schiude su un mondo misterioso e sacro, dove due mani, vive come fossero cento, trasformano parole ed emozioni nelle pagine di un diario fatto di pietra. Figure che emergono dalla materia, prendono forma come in una nascita dolorosa e liberatoria, o morbidamente ripiegate in sè, nell’intima naturalezza di un pensiero, donne dai capelli pieni di vento, abbracci che traducono l’infinito nella poesia di un corpo immerso nell’altro.
Tutto questo non vive fuori dal mondo ma, profondamente, sta alla radice stessa della vita. È il regno dell’ascolto e della visione, dell’attesa e della pazienza. E in questo sforzo creativo, in questa passione, c’è tutto l’impegno, la responsabilità e la solitudine d’essere testimoni e in qualche modo custodi dell’anima del mondo.

Questa è la mia lettera al mondo

che non ha mai scritto a me -

le semplici cose che la natura

ha detto - con tenera maestà

Bisogna cogliere il segreto del silenzio, per comprendere l’essenza delle sculture di Roberta Conigliaro. Allora, anche un semplice moto, un lieve ripiegamento del collo su se stesso, quella inclinazione della testa come ad ascoltare una voce misteriosa, interiore, diviene il risultato di mille gesti e pensieri impercettibili, il momento di equilibrio che ferma il movimento nell’istante perfetto, il segno e la cifra stilistica di una artista profondamente contemplativa.

Non sono necessari i dettagli del volto perché ogni statua abbia un volto, o gli occhi, perché veda. Lo sguardo è come trasferito nel corpo; è l’atteggiamento, un singolo movimento, la postura, a suggerire l’emozione.

Così in una donna sola e immobile, ammessa dinanzi a se stessa, o nei volti dei due amanti-pianeti che guardano nella stessa direzione, come chi percorre insieme un’unica strada. C’è tutto il peso degli occhi nel gruppo di donne velate, testimoni silenziose avvolte nei loro pepli, come un coro tragico; e il riposo, in quelli chiusi di figure misteriose e lontane, come di nomadi, che raccontano - nel tratto e nel colore - distese immense fatte di dune e di cieli stellati.

Chiudi gli occhi pian piano

i tuoi occhi marroni

dove brucia una fiamma verde

Anima mia

Altrove  siamo invasi, travolti dallo scorrere del tempo, come quell’onda da cui emergono, dentro uno straordinario dinamismo, due volti. Tempus fugit: si sente il vento dentro questa scultura, la vita nella sua natura mutevole, nella sua componente intangibile e “rischiosa”. L’impermanenza. È il flusso stesso delle cose, i fenomeni che si manifestano e poi svaniscono, come onde che emergono e poi ritornano indietro e si disciolgono. Ma oltre a questo tempo in fuga Roberta Conigliaro sa raccontare l’eternità, e lo fa attraverso il legame d’amore, con il suo potere di “creare” un tempo perfetto, infinito. Così nell’abbraccio dei due amanti che disperde il confine tra i due corpi divenuti unica entità, in quel loro avvitarsi insieme in una spirale senza fine. Il tempo si ferma e si dilata, come sospeso….Poiché non so quando l’alba giungerà,

apro tutte le porte…

A volte le figure appaiono a priori, come in una visione; ma può anche accadere che la materia prenda forma in modo inatteso, come seguendo direttamente il flusso dall’inconscio.

La pietra si forgia sotto le mani, muovendosi come una creatura vivente: ecco la saponaria cangiante, con le sue tinte verdeazzurre o quelle simili all’arenaria sabbiosa; ci sorprende scoprirla anche di un nero vulcanico, quasi astrale, misterioso controcanto alla pietra leccese, alla sua luce bianca che ricorda Siracusa e le latomie scavate dai Greci. Agli antipodi, il marmo e la terracotta, la montagna da scalare e la morbida materia degli esordi della scultrice, che oggi riscopre sotto una luce nuova.

Qualunque sia la “visione”, l’immagine cui dare corpo e forma, la materia prescelta, Roberta cerca sempre l’armonia, la bellezza, come fosse questa la ragion d’essere della sua arte. Senza compromessi, senza inseguire le professate “esigenze del tempo” con un’arte che faccia il verso agli squilibri del mondo, alle sue malattie, alle sue clamorose aritmie…

Queste statue testimoniano la ricerca di un’altra via; con la loro nuda semplicità raccontano un ritorno alla sorgente della vita. Allora bellezza diventa un altro nome della speranza.

Quando le città sono belle, anche la gente è bella

Bisogna sapersi staccare dalle proprie opere. Forse è una delle “azioni difficili” per un artista.

Dal giorno in cui una statua è terminata, comincia, in un certo senso, la sua vita. Cosa la aspetterà, superata la prima fase che l’ha condotta dal blocco alla forma umana? Da questo punto di vista una mostra è quasi un congedo, una iniziazione, con l’auspicio che le sculture possano diventare come Vittorini amava chiamarle, “convitati di pietra”, con una espressione che indicava una summa di esperienze e di valori.

Come l’idea di poter abitare dove “abitano” queste statue. O potersi fermare dinanzi ad una di esse ed avere con lei rapporti di pensiero, averla nella nostra vita come una silenziosa partecipe della nostra esistenza.

Uscire dall’ idea che l’arte viva soltanto nei musei, nelle gallerie, nelle case dei collezionisti, dentro teche dove oggetti di rara bellezza si affastellano gli uni sugli altri a tal punto da smarrire il loro significato, il senso della loro esistenza. Perché i tempi in cui le statue entravano nella vita (e nella vita di tutti) ritornino, con la stessa semplicità con cui sono già esistiti.

Giuseppina Norcia

I versi e la frase citati sono rispettivamente di Emily Dickinson, Nazim Hikmet, Emily Dickinson, Elio Vittorini. Idea della scultura. I convitati di pietra di Elio Vittorini è pubblicato sul n. 35 della rivista Il Politecnico.